Sulla validità, in Italia, della qualifica professionale di docente acquisita all’estero.

Published On: 8 Novembre 2021Categories: Scuola e Università

La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 7343 del 03.11.2021, ha affermato (e confermato) alcuni importanti principi in tema di validità dei percorsi formativi svolti all’estero per l’acquisizione della qualifica professionale di docente.
Nella fattispecie esaminata, il ricorrente si era visto denegare dal MIUR il riconoscimento dei titoli abilitativi all’insegnamento acquisiti in Romania.
Il TAR Lazio, in prime cure, respingeva l’impugnazione che è stata invece accolta dal Supremo Consesso con la decisione in rassegna.
Il Collegio in particolare, sulla scorta d’una propria precedente pronuncia (la n. 1198/2020 resa su un caso identico), ha riaffermato come “l’argomento posto a base del contestato diniego” del MIUR e che faceva leva sulla “valutazione delle autorità rumene, le quali escludono il riconoscimento delle qualifiche professionali per coloro che non hanno conseguito il titolo di studio in Romania”, si ponga “in contrasto con i principi e le norme di origine sovranazionale, i quali impongono di riconoscere in modo automatico i titoli di formazione rilasciati in un altro Stato membro al termine di formazioni in parte concomitanti, a condizione che “la durata complessiva, il livello e la qualità delle formazioni a tempo parziale non siano inferiori a quelli delle formazioni continue a tempo pieno” (cfr. ad es. Cge n. 675 del 2018)”.
Per tale ragione, secondo la Sezione, “una volta acquisita la documentazione che attesta il possesso del certificato conseguito in Romania, non può negarsi il riconoscimento dell’operatività in Italia, altro paese Ue, per il mancato riconoscimento del titolo di studio – laurea – conseguito in Italia” talché l’eventuale errore da parte delle Autorità rumene (di valutazione dei titoli) non può costituire ragione e vincolo per la decisione amministrativa italiana; ciò, in particolare, nel caso di specie, laddove il titolo di studio reputato insufficiente dalle Autorità di altro Stato membro è la laurea conseguita presso una università italiana”.
L’Alto Consesso ha, altresì, affermato sul punto che “le Autorità nazionali sono chiamate a valutare la congruità delle formazioni conseguite all’estero, nei termini chiariti dalla giurisprudenza europea” e che “in proposito, va ricordato il principio a mente del quale l’articolo 45 TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso osta a che la p.a., quando esamina una domanda di partecipazione proposta da un cittadino di tale Stato membro, subordini tale partecipazione al possesso dei diplomi richiesti dalla normativa di detto Stato membro o al riconoscimento dell’equipollenza accademica di un diploma di master rilasciato dall’università di un altro Stato membro, senza prendere in considerazione l’insieme dei diplomi, certificati e altri titoli nonché l’esperienza professionale pertinente dell’interessato, effettuando un confronto tra le qualifiche professionali attestate da questi ultimi e quelle richieste da detta normativa (cfr. ad es. Corte giustizia UE sez. II, 06/10/2015, n.298)”.
Da ciò, quindi, le norme della direttiva 2005/36/CE, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, devono essere interpretate nel senso che impongono ad uno Stato membro di riconoscere in modo automatico i titoli di formazione previsti da tale direttiva e rilasciati in un altro Stato membro al termine di formazioni in parte concomitanti, a condizione che “la durata complessiva, il livello e la qualità delle formazioni a tempo parziale non siano inferiori a quelli delle formazioni continue a tempo pieno” (cfr. più di recente Corte giustizia UE, sez. III, 06/12/2018, n. 675)”.
Il Collegio, in ultimo, per ciò che rilevava nel caso di specie, ha altresì richiamato l’art. 13 della direttiva 2013/55/Ue, che ha modificato la già menzionata direttiva 2005/36, secondo cui: “1. Se, in uno Stato membro ospitante, l’accesso a una professione regolamentata o il suo esercizio sono subordinati al possesso di determinate qualifiche professionali, l’autorità competente di tale Stato membro permette l’accesso alla professione e ne consente l’esercizio, alle stesse condizioni previste per i suoi cittadini, ai richiedenti in possesso dell’attestato di competenza o del titolo di formazione di cui all’articolo 11, prescritto da un altro Stato membro per accedere alla stessa professione ed esercitarla sul suo territorio. Gli attestati di competenza o i titoli di formazione sono rilasciati da un’autorità competente di uno Stato membro, designata nel rispetto delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di detto Stato membro”.
Ed ancora, il successivo comma 3, secondo cui “Lo Stato membro ospitante accetta il livello attestato ai sensi dell’articolo 11 dallo Stato membro di origine nonché il certificato mediante il quale lo Stato membro di origine attesta che la formazione e l’istruzione regolamentata o la formazione professionale con una struttura particolare di cui all’articolo 11, lettera c), punto ii), è di livello equivalente a quello previsto all’articolo 11, lettera c), punto i).”.
Sulla scorta di tali considerazioni, quindi, il Collegio ha ritenuto illegittimo il contestato diniego “a fronte della sussistenza in capo all’odierno appellante sia del titolo di studio richiesto, la laurea conseguita in Italia (ex sé rilevante, senza necessità di mutuo riconoscimento reciproco), sia della qualificazione abilitante all’insegnamento, conseguita presso un paese europeo”,
Ed ha riaffermato il principio per cui il MIUR, nelle vicende a mani, “lungi dal poter valorizzare l’erronea interpretazione delle autorità rumene”, è chiamato “unicamente alla valutazione indicata dalla giurisprudenza appena richiamata, cioè alla verifica che, per il rilascio del titolo di formazione ottenuto in un altro Stato membro al termine di formazioni in parte concomitanti, la durata complessiva, il livello e la qualità delle formazioni a tempo parziale non siano inferiori a quelli delle formazioni continue a tempo pieno” (cfr. in termini anche Cons. Stato, Sez. VI, 2/3/2020, n. 1521).

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Sulla validità, in Italia, della qualifica professionale di docente acquisita all’estero.

Published On: 8 Novembre 2021

La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 7343 del 03.11.2021, ha affermato (e confermato) alcuni importanti principi in tema di validità dei percorsi formativi svolti all’estero per l’acquisizione della qualifica professionale di docente.
Nella fattispecie esaminata, il ricorrente si era visto denegare dal MIUR il riconoscimento dei titoli abilitativi all’insegnamento acquisiti in Romania.
Il TAR Lazio, in prime cure, respingeva l’impugnazione che è stata invece accolta dal Supremo Consesso con la decisione in rassegna.
Il Collegio in particolare, sulla scorta d’una propria precedente pronuncia (la n. 1198/2020 resa su un caso identico), ha riaffermato come “l’argomento posto a base del contestato diniego” del MIUR e che faceva leva sulla “valutazione delle autorità rumene, le quali escludono il riconoscimento delle qualifiche professionali per coloro che non hanno conseguito il titolo di studio in Romania”, si ponga “in contrasto con i principi e le norme di origine sovranazionale, i quali impongono di riconoscere in modo automatico i titoli di formazione rilasciati in un altro Stato membro al termine di formazioni in parte concomitanti, a condizione che “la durata complessiva, il livello e la qualità delle formazioni a tempo parziale non siano inferiori a quelli delle formazioni continue a tempo pieno” (cfr. ad es. Cge n. 675 del 2018)”.
Per tale ragione, secondo la Sezione, “una volta acquisita la documentazione che attesta il possesso del certificato conseguito in Romania, non può negarsi il riconoscimento dell’operatività in Italia, altro paese Ue, per il mancato riconoscimento del titolo di studio – laurea – conseguito in Italia” talché l’eventuale errore da parte delle Autorità rumene (di valutazione dei titoli) non può costituire ragione e vincolo per la decisione amministrativa italiana; ciò, in particolare, nel caso di specie, laddove il titolo di studio reputato insufficiente dalle Autorità di altro Stato membro è la laurea conseguita presso una università italiana”.
L’Alto Consesso ha, altresì, affermato sul punto che “le Autorità nazionali sono chiamate a valutare la congruità delle formazioni conseguite all’estero, nei termini chiariti dalla giurisprudenza europea” e che “in proposito, va ricordato il principio a mente del quale l’articolo 45 TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso osta a che la p.a., quando esamina una domanda di partecipazione proposta da un cittadino di tale Stato membro, subordini tale partecipazione al possesso dei diplomi richiesti dalla normativa di detto Stato membro o al riconoscimento dell’equipollenza accademica di un diploma di master rilasciato dall’università di un altro Stato membro, senza prendere in considerazione l’insieme dei diplomi, certificati e altri titoli nonché l’esperienza professionale pertinente dell’interessato, effettuando un confronto tra le qualifiche professionali attestate da questi ultimi e quelle richieste da detta normativa (cfr. ad es. Corte giustizia UE sez. II, 06/10/2015, n.298)”.
Da ciò, quindi, le norme della direttiva 2005/36/CE, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, devono essere interpretate nel senso che impongono ad uno Stato membro di riconoscere in modo automatico i titoli di formazione previsti da tale direttiva e rilasciati in un altro Stato membro al termine di formazioni in parte concomitanti, a condizione che “la durata complessiva, il livello e la qualità delle formazioni a tempo parziale non siano inferiori a quelli delle formazioni continue a tempo pieno” (cfr. più di recente Corte giustizia UE, sez. III, 06/12/2018, n. 675)”.
Il Collegio, in ultimo, per ciò che rilevava nel caso di specie, ha altresì richiamato l’art. 13 della direttiva 2013/55/Ue, che ha modificato la già menzionata direttiva 2005/36, secondo cui: “1. Se, in uno Stato membro ospitante, l’accesso a una professione regolamentata o il suo esercizio sono subordinati al possesso di determinate qualifiche professionali, l’autorità competente di tale Stato membro permette l’accesso alla professione e ne consente l’esercizio, alle stesse condizioni previste per i suoi cittadini, ai richiedenti in possesso dell’attestato di competenza o del titolo di formazione di cui all’articolo 11, prescritto da un altro Stato membro per accedere alla stessa professione ed esercitarla sul suo territorio. Gli attestati di competenza o i titoli di formazione sono rilasciati da un’autorità competente di uno Stato membro, designata nel rispetto delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di detto Stato membro”.
Ed ancora, il successivo comma 3, secondo cui “Lo Stato membro ospitante accetta il livello attestato ai sensi dell’articolo 11 dallo Stato membro di origine nonché il certificato mediante il quale lo Stato membro di origine attesta che la formazione e l’istruzione regolamentata o la formazione professionale con una struttura particolare di cui all’articolo 11, lettera c), punto ii), è di livello equivalente a quello previsto all’articolo 11, lettera c), punto i).”.
Sulla scorta di tali considerazioni, quindi, il Collegio ha ritenuto illegittimo il contestato diniego “a fronte della sussistenza in capo all’odierno appellante sia del titolo di studio richiesto, la laurea conseguita in Italia (ex sé rilevante, senza necessità di mutuo riconoscimento reciproco), sia della qualificazione abilitante all’insegnamento, conseguita presso un paese europeo”,
Ed ha riaffermato il principio per cui il MIUR, nelle vicende a mani, “lungi dal poter valorizzare l’erronea interpretazione delle autorità rumene”, è chiamato “unicamente alla valutazione indicata dalla giurisprudenza appena richiamata, cioè alla verifica che, per il rilascio del titolo di formazione ottenuto in un altro Stato membro al termine di formazioni in parte concomitanti, la durata complessiva, il livello e la qualità delle formazioni a tempo parziale non siano inferiori a quelli delle formazioni continue a tempo pieno” (cfr. in termini anche Cons. Stato, Sez. VI, 2/3/2020, n. 1521).

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