Risarcimento del danno da illegittima occupazione di un bene del privato

Published On: 4 Giugno 2019Categories: Edilizia, Urbanistica ed Espropriazioni, Enti locali, Tutele

Con la sentenza del 17.05.2019 n. 3195, il Consiglio di Stato ha parzialmente accolto l’appello proposto da un Comune avverso la sentenza che lo condannava al risarcimento del danno provocato dall’illegittima occupazione di un bene di un privato.

In particolare, il Consiglio di Stato ha dapprima richiamato la giurisprudenza ormai consolidata della Cassazione, sulla base della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, per cui è stato del tutto superato nell’ordinamento l’istituto dell’accessione invertita in tutte le sue sfumature e variabili giurisprudenziali, essendo venuta meno, in quanto non compatibile con la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, la possibilità di affermare in via interpretativa che da una attività illecita della P.A. possa derivare la perdita del diritto di proprietà da parte del privato. Caduto tale presupposto, diviene applicabile lo schema generale degli artt. 2043 e 2058 c.c., il quale non solo non consente l’acquisizione autoritativa del bene alla mano pubblica, ma attribuisce al proprietario, rimasto tale, la tutela reale e cautelare apprestata nei confronti di qualsiasi soggetto dell’ordinamento (restituzione, riduzione in pristino stato dell’immobile, provvedimenti di urgenza per impedirne la trasformazione, ecc.) oltre al consueto risarcimento del danno, ancorato ai parametri dell’art. 2043 c.c.. Trattandosi sempre di un’ipotesi d’illecito permanente, lo stesso viene a cessare, solo, per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell’occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente (Cass. civ., Sez. Unite, 19 gennaio 2015, n. 735; Cass. civ., Sez. I, 24 maggio 2018, n. 12961).

I Giudici di Palazzo Spada, invece, hanno accolto il motivo di appello relativo al vizio di ultrapetizione per avere il giudice di primo grado condannato al risarcimento del danno da illegittima occupazione in mancanza della relativa domanda e comunque in presenza di una domanda in via subordinata, in quanto non poteva ritenersi che nel ricorso di primo grado fosse stata proposta una autonoma domanda di risarcimento danni per la illegittima occupazione.

Infatti, solo nelle epigrafe e nelle conclusioni del ricorso era contenuto un riferimento del tutto generico all’occupazione, in particolare chiedendo “il risarcimento dei danni ingiusti conseguenti all’illecito comportamento e/o occupazione e/o acquisizione” dell’area da parte del Comune , facendo sempre riferimento al valore di mercato del bene o, in subordine, al valore da determinarsi ai sensi del comma 7 bis dell’art. 5 bis della legge n. 359 del 1992, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

Da tale generica indicazione, secondo il Consiglio di Stato, non si può ritenere proposta una domanda di risarcimento dei danni subiti per il periodo di illegittima occupazione; anche il riferimento al valore venale del bene e la quantificazione della somma con riferimento al valore di mercato del bene e ancora di più il richiamo al comma 7 bis dell’art. 5 bis della legge n. 359 del 1992 indicano chiaramente che la domanda riguarda il danno per la perdita del bene, proposta, nel caso di specie, in via subordinata rispetto a quella di restituzione e comunque alternativa a quella di restituzione.

Peraltro, se la domanda risarcitoria non fosse stata proposta in via subordinata avrebbe integrato, in base alla consolidata giurisprudenza, la rinuncia abdicativa alla proprietà dell’area (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 2 del 9 febbraio 2016; sez. IV, 7 novembre 2016 n. 4636; Cass. civ., Sez. Unite, n. 735 del 19 gennaio 2015).

Inoltre, nel corpo dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, veniva fatto esclusivo riferimento al danno per la perdita della proprietà del bene, quantificandolo sempre nel valore venale dello stesso o tramite l’applicazione del comma 7 bis dell’art. 5 bis della legge n. 359 del 1992, che riguardava i criteri di liquidazione del danno per la perdita del bene dovuta all’effetto dell’accessione invertita.

La domanda per il periodo di illegittima occupazione ha presupposti diversi e autonomi rispetto a quella per la perdita del bene, riguardando quest’ultima la perdita del terreno, incompatibile con la domanda di restituzione, l’altra i danni derivanti dal mancato godimento del terreno, configurabili dal momento della materiale occupazione ovvero della scadenza del termine per l’occupazione legittima fino al momento della restituzione e proponibile anche insieme alla domanda di restituzione del bene. Inoltre, con riferimento a tali domande decorre, altresì, un diverso termine di prescrizione; in particolare per il danno da occupazione legittima, relativo ai danni subiti per la perdita delle utilità ricavabili dal terreno, la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità (Cass. civ., Sez. Unite,19 gennaio 2015, n. 735; Consiglio di Stato Sez. IV, 7 novembre 2016, n. 4636; di recente Cons. giust. amm. reg. sic., 25 marzo 2019, n. 255).

Ne deriva che tale richiesta non si può ritenere compresa nella generica formula contenuta nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ma avrebbe dovuto essere oggetto di una autonoma domanda risarcitoria.

In ogni caso, se anche tale domanda si ritenesse compresa nella domanda risarcitoria proposta, questa è stata espressamente subordinata alla restituzione, con la conseguenza che il giudice di primo grado non avrebbe dovuto comunque esaminarla a seguito dell’accoglimento della domanda di restituzione.

Per costante giurisprudenza, l’art. 112 c.p.c., in base al quale il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa, deve intendersi violato ove il giudice alteri petitum e causa petendi pronunciandosi in merito ad un bene diverso da quello richiesto, nemmeno compreso implicitamente nella domanda o qualora ponga a fondamento della decisione fatti o situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo una causa petendi nuova e diversa rispetto a quella contenuta nella domanda (Consiglio di Stato, sez. V, 11 aprile 2016, n. 1419; Sez. IV, 11 gennaio 2019, n. 257).

Il Collegio ha dunque ritenuto sussistente il vizio di ultrapetizione del giudice che ha condannato al risarcimento del danno per il mancato godimento del bene in mancanza di una specifica domanda in tal senso.

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Risarcimento del danno da illegittima occupazione di un bene del privato

Published On: 4 Giugno 2019

Con la sentenza del 17.05.2019 n. 3195, il Consiglio di Stato ha parzialmente accolto l’appello proposto da un Comune avverso la sentenza che lo condannava al risarcimento del danno provocato dall’illegittima occupazione di un bene di un privato.

In particolare, il Consiglio di Stato ha dapprima richiamato la giurisprudenza ormai consolidata della Cassazione, sulla base della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, per cui è stato del tutto superato nell’ordinamento l’istituto dell’accessione invertita in tutte le sue sfumature e variabili giurisprudenziali, essendo venuta meno, in quanto non compatibile con la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, la possibilità di affermare in via interpretativa che da una attività illecita della P.A. possa derivare la perdita del diritto di proprietà da parte del privato. Caduto tale presupposto, diviene applicabile lo schema generale degli artt. 2043 e 2058 c.c., il quale non solo non consente l’acquisizione autoritativa del bene alla mano pubblica, ma attribuisce al proprietario, rimasto tale, la tutela reale e cautelare apprestata nei confronti di qualsiasi soggetto dell’ordinamento (restituzione, riduzione in pristino stato dell’immobile, provvedimenti di urgenza per impedirne la trasformazione, ecc.) oltre al consueto risarcimento del danno, ancorato ai parametri dell’art. 2043 c.c.. Trattandosi sempre di un’ipotesi d’illecito permanente, lo stesso viene a cessare, solo, per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell’occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente (Cass. civ., Sez. Unite, 19 gennaio 2015, n. 735; Cass. civ., Sez. I, 24 maggio 2018, n. 12961).

I Giudici di Palazzo Spada, invece, hanno accolto il motivo di appello relativo al vizio di ultrapetizione per avere il giudice di primo grado condannato al risarcimento del danno da illegittima occupazione in mancanza della relativa domanda e comunque in presenza di una domanda in via subordinata, in quanto non poteva ritenersi che nel ricorso di primo grado fosse stata proposta una autonoma domanda di risarcimento danni per la illegittima occupazione.

Infatti, solo nelle epigrafe e nelle conclusioni del ricorso era contenuto un riferimento del tutto generico all’occupazione, in particolare chiedendo “il risarcimento dei danni ingiusti conseguenti all’illecito comportamento e/o occupazione e/o acquisizione” dell’area da parte del Comune , facendo sempre riferimento al valore di mercato del bene o, in subordine, al valore da determinarsi ai sensi del comma 7 bis dell’art. 5 bis della legge n. 359 del 1992, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

Da tale generica indicazione, secondo il Consiglio di Stato, non si può ritenere proposta una domanda di risarcimento dei danni subiti per il periodo di illegittima occupazione; anche il riferimento al valore venale del bene e la quantificazione della somma con riferimento al valore di mercato del bene e ancora di più il richiamo al comma 7 bis dell’art. 5 bis della legge n. 359 del 1992 indicano chiaramente che la domanda riguarda il danno per la perdita del bene, proposta, nel caso di specie, in via subordinata rispetto a quella di restituzione e comunque alternativa a quella di restituzione.

Peraltro, se la domanda risarcitoria non fosse stata proposta in via subordinata avrebbe integrato, in base alla consolidata giurisprudenza, la rinuncia abdicativa alla proprietà dell’area (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 2 del 9 febbraio 2016; sez. IV, 7 novembre 2016 n. 4636; Cass. civ., Sez. Unite, n. 735 del 19 gennaio 2015).

Inoltre, nel corpo dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, veniva fatto esclusivo riferimento al danno per la perdita della proprietà del bene, quantificandolo sempre nel valore venale dello stesso o tramite l’applicazione del comma 7 bis dell’art. 5 bis della legge n. 359 del 1992, che riguardava i criteri di liquidazione del danno per la perdita del bene dovuta all’effetto dell’accessione invertita.

La domanda per il periodo di illegittima occupazione ha presupposti diversi e autonomi rispetto a quella per la perdita del bene, riguardando quest’ultima la perdita del terreno, incompatibile con la domanda di restituzione, l’altra i danni derivanti dal mancato godimento del terreno, configurabili dal momento della materiale occupazione ovvero della scadenza del termine per l’occupazione legittima fino al momento della restituzione e proponibile anche insieme alla domanda di restituzione del bene. Inoltre, con riferimento a tali domande decorre, altresì, un diverso termine di prescrizione; in particolare per il danno da occupazione legittima, relativo ai danni subiti per la perdita delle utilità ricavabili dal terreno, la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità (Cass. civ., Sez. Unite,19 gennaio 2015, n. 735; Consiglio di Stato Sez. IV, 7 novembre 2016, n. 4636; di recente Cons. giust. amm. reg. sic., 25 marzo 2019, n. 255).

Ne deriva che tale richiesta non si può ritenere compresa nella generica formula contenuta nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ma avrebbe dovuto essere oggetto di una autonoma domanda risarcitoria.

In ogni caso, se anche tale domanda si ritenesse compresa nella domanda risarcitoria proposta, questa è stata espressamente subordinata alla restituzione, con la conseguenza che il giudice di primo grado non avrebbe dovuto comunque esaminarla a seguito dell’accoglimento della domanda di restituzione.

Per costante giurisprudenza, l’art. 112 c.p.c., in base al quale il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa, deve intendersi violato ove il giudice alteri petitum e causa petendi pronunciandosi in merito ad un bene diverso da quello richiesto, nemmeno compreso implicitamente nella domanda o qualora ponga a fondamento della decisione fatti o situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo una causa petendi nuova e diversa rispetto a quella contenuta nella domanda (Consiglio di Stato, sez. V, 11 aprile 2016, n. 1419; Sez. IV, 11 gennaio 2019, n. 257).

Il Collegio ha dunque ritenuto sussistente il vizio di ultrapetizione del giudice che ha condannato al risarcimento del danno per il mancato godimento del bene in mancanza di una specifica domanda in tal senso.

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