Interdittiva antimafia: basta anche un solo dipendente "infiltrato"

Published On: 29 Settembre 2018Categories: Appalti Pubblici e Concessioni, Tutele, Varie

Il Consiglio di Stato, con la sentenza del 14 settembre 2018 numero 5410, tornando a pronunziarsi in tema di informativa interdittiva antimafia, dopo la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3/2018, ha affermato che ai fini della sussistenza del condizionamento mafioso rilevante per  l’emissione dell’interdittiva, può essere sufficiente la presenza anche di un singolo dipendente, che svolga all’interno dell’impresa una funzione non apicale.
L’interdittiva antimafia, considerati sia i molteplici interessi che coinvolge sia soprattutto la ratio che la sorregge, è volta alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione. Essa comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore – pur dotato di adeguati mezzi economici e di un’adeguata organizzazione – meriti la fiducia delle Istituzioni, risulti “affidabile”, e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge.
Sul punto, i Giudici della Terza Sezione hanno chiarito che il condizionamento mafioso che porta all’interdittiva (rilevante ai fini della partecipazione alle pubbliche gare, ai sensi dell’art. 80, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016“…può derivare anche dalla presenza di soggetti che non svolgono ruoli apicali all’interno della società, ma siano o figurino come meri dipendenti, entrati a far parte dell’impresa senza alcun criterio selettivo e filtri preventivi…” e che detto condizionamento si può desumere anche dalla presenza di un solo dipendente «infiltrato», del quale la mafia si serva per controllare o guidare dall’esterno l’impresa, nonché dall’assunzione o dalla presenza di dipendenti aventi precedenti legati alla criminalità organizzata, nonostante non ermergano specifici riscontri oggetti(vi) sull’influenza nelle scelte dell’impresa…gli imprenditori possono quindi “…effettuare liberamente le assunzioni quando non intendono avere rapporto con le pubbliche amministrazioni: ove intendano avere, invece, tali rapporti devono vigilare affinché nella loro organizzazione non vi siano dipendenti contigui al mondo della criminalità organizzata….”.
Risulta dunque evidente come l’informazione, a differenza della comunicazione (antimafia), si fondi su una valutazione ampiamente discrezionale circa la sussistenza o meno di tentativi di infiltrazione mafiosa, che muove dall’analisi e dalla valorizzazione di specifici elementi fattuali i quali rappresentano obiettivi indici sintomatici di connessioni o collegamenti con associazioni criminali. Tale ampia discrezione del Prefetto nell’apprezzamento del tentativo di infiltrazione mafiosa comporta che la sua valutazione sia sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell’informativa antimafia rimane estraneo l’accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento.
La Terza Sezione, con la sentenza in rassegna, ha poi aggiunto che “…quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose, l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia…” ed ancora che “…nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione…”.

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Interdittiva antimafia: basta anche un solo dipendente "infiltrato"

Published On: 29 Settembre 2018

Il Consiglio di Stato, con la sentenza del 14 settembre 2018 numero 5410, tornando a pronunziarsi in tema di informativa interdittiva antimafia, dopo la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 3/2018, ha affermato che ai fini della sussistenza del condizionamento mafioso rilevante per  l’emissione dell’interdittiva, può essere sufficiente la presenza anche di un singolo dipendente, che svolga all’interno dell’impresa una funzione non apicale.
L’interdittiva antimafia, considerati sia i molteplici interessi che coinvolge sia soprattutto la ratio che la sorregge, è volta alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione. Essa comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore – pur dotato di adeguati mezzi economici e di un’adeguata organizzazione – meriti la fiducia delle Istituzioni, risulti “affidabile”, e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge.
Sul punto, i Giudici della Terza Sezione hanno chiarito che il condizionamento mafioso che porta all’interdittiva (rilevante ai fini della partecipazione alle pubbliche gare, ai sensi dell’art. 80, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016“…può derivare anche dalla presenza di soggetti che non svolgono ruoli apicali all’interno della società, ma siano o figurino come meri dipendenti, entrati a far parte dell’impresa senza alcun criterio selettivo e filtri preventivi…” e che detto condizionamento si può desumere anche dalla presenza di un solo dipendente «infiltrato», del quale la mafia si serva per controllare o guidare dall’esterno l’impresa, nonché dall’assunzione o dalla presenza di dipendenti aventi precedenti legati alla criminalità organizzata, nonostante non ermergano specifici riscontri oggetti(vi) sull’influenza nelle scelte dell’impresa…gli imprenditori possono quindi “…effettuare liberamente le assunzioni quando non intendono avere rapporto con le pubbliche amministrazioni: ove intendano avere, invece, tali rapporti devono vigilare affinché nella loro organizzazione non vi siano dipendenti contigui al mondo della criminalità organizzata….”.
Risulta dunque evidente come l’informazione, a differenza della comunicazione (antimafia), si fondi su una valutazione ampiamente discrezionale circa la sussistenza o meno di tentativi di infiltrazione mafiosa, che muove dall’analisi e dalla valorizzazione di specifici elementi fattuali i quali rappresentano obiettivi indici sintomatici di connessioni o collegamenti con associazioni criminali. Tale ampia discrezione del Prefetto nell’apprezzamento del tentativo di infiltrazione mafiosa comporta che la sua valutazione sia sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell’informativa antimafia rimane estraneo l’accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento.
La Terza Sezione, con la sentenza in rassegna, ha poi aggiunto che “…quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose, l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia…” ed ancora che “…nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione…”.

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